da “Parlare senza parole- Logos e Tao” pag.67-68-69 di Francois Jullien

“Dal principio di non contraddizione Aristotele fa conseguire quello del terzo escluso: tra enunciati contrari non esiste alcun termine intermedio, dal momento che di un solo soggetto si deve necessariamente affermare o negare uno stesso predicato, qualunque esso sia.

Dal momento in cui si prende una definizione come punto di partenza, definizione che deriva dalla necessità che imponiamo all’altro di “attribuire a ciascun termine un significato determinato”, qualsiasi altra possibilità che emerge “tra” i termini contraddittori viene soppressa.

In Cina , anche i moisti delle ultime generazioni, nel definire rigorosamente le condizioni della disputa filosofica, hanno concepito questo principio quasi negli stessi termini – il chè può rassicurare i logici, se ve ne fosse bisogno, riguardo l’universalità dei ragionamenti.

Dal momento che la disputa “verte su due termini tra di loro contraddittori”, “è adeguato che uno trionfi sull’altro” (Canone Moista, A, 74;esempio, se uno dice che “è un bue” e l’altro che “non è un bue”, “è necessario che una delle due posizioni non sia adeguata” e la forma dell’alternativa esclude ogni altro possibile ).

Il pensatore moista considera l’adeguatezza (dang) come ha fatto la tradizione scolastica seguendo le orme di Aristotele, anche se, dato che il suo pensiero non si radica nell’Essere, egli non è portato ad elevare tale adeguatezza a “verità”- differenza che riacquisterà in seguito tutto il suo vigore.

Partendo dal fatto che la contrarietà fondamentale, quella dell’essere e del non-essere, serve di base al principio del terzo escluso, pretendere che vi sia un livello intermedio tra questi termini contraddittori “equivale a non dire né dell’essere né del non essere o che esso non è”(Gamma, 7), equivale cioè a non dire più niente e il pensiero affonda, si dis-fa ineluttabilmente e non pensa più.

Al contrario entrare nel pensiero taoista significa riaprire esattamente la possibilità di questo “tra”, metaxu, che invece Aristotele esclude. Infatti l’effettività inesauribile di cui “Tao” esprime la “fonte”- questa capacità sempre nell’ombra del visibile che, in virtù di ciò, si separa dai segni tangibili che da essa scaturiscono senza sosta, quegli stessi segni di cui dà contro la definizione – non può essere colta secondo la categoria del “c’è” (you) che descrive il tangibile, né tanto meno secondo quella del “non c’è” (wu) che ne constata l’inesistenza.

Da qui l’espressione contraddittoria che smantella la loro opposizione e da sola la caratterizza.” chiamiamo il tao configurazione senza configurazione, immagine (fenomeno) senza realtà (concreta)” (Laozi, 14.)”

Del tao possiamo ugualmente dire che non è nell’uno né l’altro: esso è afferrabile-inafferrabile, il suo unico carattere è quello di non essere caratterizzabile, potremo altresì dire che il reale non può avvenire senza allo stesso tempo sfuggire.

Infatti dalla virtualità che deriva dal suo continuo scaturire, a monte dello stadio del concreto, essa non si lascerà relegare in nessuna attualizzazione particolare che lo riveli nella dimensione del visibile. Ogni manifestazione dell’esistenza proviene da questa effettività instancabilmente all’opera, troppo sottile e diffusa per non rimanere invisibile.

poiché il tao si coglie se non tra i contrari del c’è non c’è, l’unica caratterizzazione che gli si addice sarà non quella del chiaro e del distinto, assurti in ambito europeo a condizione necessaria della ragione, bensì , esattamente all’opposto, come verrà detto nel proseguio, quella del “vago” e dell'”indistinto” (bu huang).

Dato che non possiede né l’opacità né la consistenza delle cose, né tanto meno la condizione di pura idealità che nel pensiero greco, da Platone in poi, serve a definire il mondo delle Forme e dell’intelligibile, e dato che non è né fenomenico né astratto, ma costantemente fenomenalizzante-si/defenomanalizzante-si, il tao non è soggetto nè a contorni definiti né a determinazioni intrinseche: il suo solo tratto saliente è “l’incerto”

In quanto effettività esso non è né materiale né spirituale, dal momento che l’uno verrebbe separato dall’altro, bensì evolve tra questi poli collocandosi nella dimensione del sottile e del dissolto, dello slegato e del decantato (wei, jing); non si comprende attraverso i termini antitetici della presenza e dell’assenza, (ricordiamoci, profondamente nascosto come forse se esiste, cfr Laozi, 4), bensì grazie alla loro costante transizione, agli stadi dell’emersione e del riassorbimento, manifestandosi allo stesso tempo attraverso le modalità del diffuso e dell’evanescente.”

[Traduzione di Simonetta Silvestri]