La testa e il cuore
il fenomeno psicosomatico secondo il pensiero cinese
di Francis Rouam

tradotto da http://www.lacanchine.com/ChCl_Rouam0.html

Psicosomatica
Il termine “psicosomatica” che qualifica una malattia, un disturbo, un sintomo o un argomento, è portatore di una fondamentale ambiguità nel tentativo che si propone di collegare i due mondi irriducibilmente eterogenei e separati l’uno dall’altro che sono il somatico e lo psichico.

A partire dall’opposizione della res extensa e della res cogitans di Cartesio, ma già nel difficile progetto di stabilire la coerenza della relazione tra corpo e anima nella Grecia antica con il concetto di malinconia ( bile nera), le teorie scientifiche o filosofiche, le dottrine religiose hanno smesso di cercare di formalizzare un possibile legame tra queste due entità irriducibili l’una all’altra, a meno di un risolversi nell’assorbirsi l’una nell’altra.

La psicoanalisi si interessa al corpo nell’evento di una domanda che ne diviene il supporto, o alle sue manifestazioni nel corso del trattamento; è in quanto connesso ai fenomeni del linguaggio che lo include nel suo campo di applicazione , non in un approccio che mira a aggregarlo al mondo delle neuroscienze. Questo è ciò che Lacan ci ricorda in “radiofonia”, il corpo del linguaggio opera una presa sul corpo biologico. Il corpo è da subito corpo sottoposto a tagli simbolici. È un corpo corps, dice Lacan (corps in inglese vuol dire cadavere), è un corpo cadaverizzato dal linguaggio che lo incorpora.

L’isteria di conversione ne è il paradigma poiché mette in scena le modalità della presa del corpo nel linguaggio, fornisce la matrice dalla quale la teoria psicoanalitica elaborerà il concetto di “sintomo”. Così, per la psicoanalisi, il sintomo è significante , l’appellativo di sintomo sarà riservato a ciò che è significante e non a ciò che è segno come per la medicina.

La definizione di sintomo psicosomatico diventa di conseguenza incongrua quando pretende di coprire un certo numero di fenomeni e di manifestazioni del corpo nella dimensione del significante nel corso della cura, rivelandosi problematica.

La medicina e la psicologia, come sappiamo, hanno lasciato in uso questo termine che denota da una parte una incapacità di stabilire una eziologia organica biologica univoca del sintomo morboso e dall’altra la necessità di dedurre una causalità psicologica per colmare il vuoto lasciato dall’enigma della sua genesi. E’ in questa misura che la medicina pretende di recuperare nel suo discorso l’isteria di conversione il cui determinismo è supposto d’ordine psico-affettivo.

La psicoanalisi se ne discosta per sostenere una logica del senso, ma nella misura in cui i suoi effetti avvengono nella caduta di un significante durante l’operazione metaforica; è dal fallimento di un tale processo che sorge la difficoltà di affrontare il fenomeno psicosomatico nella misura in cui si differenzia dal sintomo di conversione.

Contrariamente a quest’ultimo, il cosiddetto disturbo psicosomatico non è rilevabile né per la sua natura significante, né per quella di un contenuto di significato. Non è segno per nessuno, come dimostrano le interruzioni delle indagini mediche in questi casi, che si riferiscono a queste “no man’s lands” del campo medico della psicosomatica (il ricorso alla dimensione psicologica traduce l’impotenza del discorso della medicina a integrarsi nell’ universo semiologico); il suo carattere significante sfugge per la sua incapacità di differirsi da un altro significante per rappresentare un soggetto, quanto alla costellazione e alla confluenza nel sintomo di eventuali significanti della storia del paziente, che si potranno leggere più o meno facilmente, non riescono a produrre questo effetto di elisione metaforica ; non si è qui nella logica del ritorno del rimosso.

L’opposizione resta schematica , poiché la clinica insegna che non si possono distinguere in maniera così netta i sintomi somatici “degni di questo nome,” da quelli che continueremo a nominare in mancanza di meglio disturbi psicosomatici, la cui presa nel linguaggio resta oscura o solamente supposta (ciò permette evidentemente di supporre il contrario).

Inoltre, tale disparità è del tutto osservabile per una stessa manifestazione somatica, il cui stato può interessare un periodo specifico o momenti diversi durante la cura e l’esistenza del paziente. Il nostro interesse non sarà indirizzato pertanto che alla dimensione in cui la congruenza della lingua resta un problema per uno o più fenomeni somatici rilevati.
L’organo sofferente e qualificato “malato” è escluso dall’ unità (immaginaria) del corpo, dalla sua immagine unificata, si presenta come un’aberrazione,una macchia opaca in un quadro, o come ciò che minaccia di far esplodere il quadro e lo rende ridicolo. Cattura lo sguardo, lo immobilizza e lo assorbe in una trappola senza risposta, oscura l’attenzione e prosciuga il pensiero che si riduce a un linguaggio meccanico e devitalizzato, eventualmente preso in prestito dalla conoscenza scientifica, e si rinsacca in una denuncia ripetitiva , litania disperata di parole indefinitamente replicabili e simili a se stesse. Il discorso si riduce a un refrain ostinato dove scompare ogni melodia, non sbocca che nella sua mortifera perpetuazione, al punto stesso dove le possibili modulazioni della sofferenza si riassorbono nell’immobilità della sua insistenza.

La descrizione spesso minuziosa del viscere doloroso o della sua disfunzione cerca di definire i contorni con una precisione assoluta per tentare di stabilirne l’esistenza innegabile e punta a una presenza che spazzi ogni equivoco, a una visibilità assoluta dove alcuna ombra possa attenuare l’ aridità lasciata dall’abbandono di ogni libido.

Questa evocazione del disturbo psicosomatico da parte del paziente partecipa di un modo impersonale e oggettivante, che riflette la revoca o l’assenza del soggetto che lo enuncia.

È banale dire che l’ immaginario di questi pazienti con disturbi psicosomatici sia particolarmente esaurito o quasi inesistente; piuttosto l’immaginario che concerne il fenomeno somatico si localizza in una parte del corpo o in una funzione che si rivela notevolmente ridotta.

Quali che siano le modalità specifiche della espressione clinica di questi disturbi, si verifica inevitabilmente,lo abbiamo già accennato, la questione del loro senso, nell’accezione più ampia del termine, che naturalmente implica un sapere inconscio, in una ricerca metonimica indefinita che alimenta la fucina del discorso in cui si attende, a volte a tempo indeterminato, l’emergere della metafora.

L’insieme delle diverse teorie che cercano di render conto dei problemi o malattie psicosomatiche sono distribuite attorno a questo asse centrale del senso, variamente accordato con più o meno prodigalità o al contrario rifiutato; si può anche notare che alle manifestazioni psicosomatiche si attribuisce un gran mole di significati che si accumulano indefinitamente nella bocca del medico o in quella dell’analista impotente oppure del paziente, al punto da diventare il ricettacolo di un -più di sapere, tanto inutile che prolifico.

Il problema del senso è inseparabile da quello della rappresentazione, sia che si tratti di ciò che promuove il pensiero classico o di ciò che permette a un soggetto di sostenersi a partire da due significanti.
La nozione di rappresentazione e di rappresentante è ovviamente legata nell’opera di Freud al rappresentante psichico della pulsione, e il suo imbarazzo è quello di individuare la pulsione tra

il limite del somatico e dello psichico, e l’ intreccio della soddisfazione della pulsione e del bisogno ( l’uso della stessa parola “soddisfazione” contribuisce a mantenere una grande confusione entro due campi che si riferiscono a esperienze molto diverse).
L’introduzione del concetto di godimento è il tentativo proposto da Lacan per aggirare questo dualismo altrimenti irriducibile di soma e psiche, mantenendo il corpo in una “substance jouissante” . Questo godimento è segnato, a causa del linguaggio e del significante, da una perdita primordiale, a partire da ciò che sarebbe un pieno godimento del corpo, ed è organizzato, si potrebbe dire, intorno a diverse modalità pulsionali in una sorta di logica di compensazione.

Ma è proprio a questo livello che si situa l’interruzione del fenomeno psicosomatico .

Così Lacan formula nella Conferenza di Ginevra nel 1975: “La questione dovrebbe essere giudicata in termini di – qual è il tipo di godimento che si trova nella psicosomatica? Se ho evocato una metafora come quella del congelamento, è perché c’è questa specie di fissazione …”
Mr. Vauthier: “C’è qualcosa di paradossale. Quando sembra che la parola godimento riprenda un senso nello psicosomatico, non è psicosomatico …”
Lacan: “Pienamente d’accordo. E’ per la rivelazione del godimento specifico che c’è nella fissazione che si è condotti sempre ad abbordare la psicosomatica “.
Questa è una domanda fondamentale sul concetto di godimento e su ciò che ci dirige e costringe nel campo della psicosomatica, pertanto la questione dello statuto del dualismo di psiche e soma è di nuovo sollevata e rinnovata.

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E ‘comune attribuire al pensiero cinese una visione unificante di corpo e psiche, con una risonanza più o meno metafisica, come quella proposta da una serie di correnti di pensiero tanto di moda in Occidente.

E ‘un fatto che, a secondo dei testi, delle occorrenze e dei contesti, psiche e soma sono o chiaramente differenziati – quando pare sia utile o necessario per l’argomento – o presi in considerazione allo stesso livello al punto che la loro differenziazione diventa irrilevante; emerge dunque un terzo concetto che è una non-identificazione della loro rispettiva esistenza epistemologica. Le opere di medicina tradizionale cinese pullulano di questi due tipi di esempi, che testimoniano di conseguenza una diversa logica all’opera.

Se un certo edonismo attraversa il pensiero di Freud (che, ovviamente, non consente di fare dell’ etica della psicoanalisi un’etica edonistica), senza il quale un concetto come quello di godimento, non avrebbe potuto dar frutti, è innegabile che tale edonismo, non assente dal pensiero cinese, viene considerato qui in modo molto diverso.

Sia che si consideri il linguaggio come ciò che consuma la perdita della cosa, che consacri la perdita della coesione del corpo organico in cui soma e psiche sono inizialmente indifferenziati, che a partire da lì si instauri la dialettica dell’oggetto perduto e / o dell’oggetto mancante, ciò implica da una parte che niente si concepisce indipendentemente da un punto di origine sia reale che mitico e dall’altra che l’attività di marcatura del significante non è dissociabile da un effetto di taglio. Sappiamo del successo di questo termine “taglio”, ma potremmo anche sostituirlo con “rottura” o altro ancora, e perché no , con il termine cinese “fen” per la quale il dizionario Ricci (12) offre le seguenti parole : dividere, frazionare, condividere, differenziare, distinguere, discernere (come qualsiasi carattere cinese, può essere sia verbo che il sostantivo corrispondente, quindi a questo elenco di termini si dovrebbe aggiungere: “divisione, parte, ecc.”) nella etimologia di questo carattere si riconosce nella parte inferiore (radicale) uno strumento tagliente, un coltello affilato, una sciabola, una strumento primitivo in silice, mentre nella sua parte superiore la divisione in 2 (isolata, quest’ultima parte significa “8″).

Ora, si tratta , con questa nozione di frazionamento e partizione , di una delle caratteristiche principali che riguardano non solo l’attività designatoria della parola in generale, ma anche quella in cui la parola “fen” , che si potrebbe qualificare , nell’universo cinese, come “giusto”, tende al contrario a sé deprendre . La parola “giusto” si riferisce al concetto di “centro”, concetto che riguarda anche le descrizioni del corpo . Alcuni chiarimenti a riguardo:

Notiamo anzitutto che non esiste in cinese (cinese antico, cioè al di fuori dell’influenza occidentale), un termine generico per designare il “corpo”, ma piuttosto si trovano un gran numero di parole che descrivono il corpo in vari aspetti e funzioni che variano a seconda del contesto, e non possono essere riunite sotto un unico concetto e un’unica denominazione..

I diversi usi della metafora corporale per evocare l’organizzazione dello stato, illustrano le divergenze dei punti di vista tra il mondo occidentale e la tradizione cinese riguardo la concezione del corpo , se in Occidente il re può essere paragonato alla testa e i sudditi alle membra, come ricorda Kantorowicz (7), nella Cina classica, l’imperatore è il cuore, il centro, ma il centro è ubiquitario, si situa tanto al centro che alla periferia, poiché ogni periferia ha un centro. A questa ubiquità di centro-ambiente risponde l’ assenza di un concetto unificatore di “corpo”.

Il cuore cinese – l’Imperatore – è il centro: questo centro però, non si riferisce a una posizione fissa e a una posizione senza tempo, ma al funzionamento di un processo in corso, fatto di permanenti trasformazioni Le sue coordinate spazio-temporali non sono mai fisse, e variano a seconda del contesto in questione. Queste mutazioni sono l’effettuazione di una alternanza tra il potenziale e l’attuale , torneremo su questo punto. L’imperatore così è dislocato in tutte le parti del suo impero , sino ai suoi confini più estremi, i più “periferici”, e riassume questa funzione primordiale percorrendo ritualmente le 9 stanze del suo palazzo nel modo di un percorso indefinito. Il centro non è un trono immutabile, nè un attributo della legge divina o conferita da una qualsiasi entità trascendentale o metafisica, assolutizzato, ma il principio iniziatore e induttore di qualsiasi mutazione.

Inoltre, se si sostiene la formulazione secondo la quale il corpo è Altro ed è indissociabile dall’Altro , e se il corpo cinese, pur implicando una pratica fisica tangibile prima di un qualsiasi discorso su di esso, non può evidentemente ridursi ad una pura sensorialità , l’Altro, nel mondo cinese, non è dell’ordine che sottintende una dialettica d’interiorità e esteriorità , vale a dire di un confine e di una discontinuità. L’altro è del registro del divenire, e a questo riguardo , anche il corpo lo è.

La dualità infine non è tra corpo e mente, o tra Eros e Thanatos, o tra il mondo dei fenomeni e delle idee (Platone) o tra essere e non-essere, ma tra il potenziale e l’attuale in una concatenazione senza fine, dove sono nello stesso tempo alternati e inestricabilmente intrecciati, senza alcuna idea di un’essenza che perdurerebbe oltre la scomparsa del mondo visibile.

Il corpo non si apprende che come trasformazione e luogo di trasformazione, coinvolto in un processo generale di mutazioni; il discorso prodotto sul corpo non riflette alcuna particolare esperienza, ma si limita a tracciare i bordi della cornice in cui quest’ultimo sarà definito come un risultato (temporaneo e ciclico) di una mutazione in corso. Il centro è sia il luogo che il motore di tali trasformazioni..

La parola e il corpo parlano
In che modo allora il problema della parola è affrontato nei testi classici cinesi?

La parola è così evocata da Zhuangzi (IV secolo aC), uno dei principali autori della corrente filosofica del Taoismo :

“La ragione della trappola si trova nel pesce (/ trappola esiste a causa del pesce) quando abbiamo preso il pesce, dimentichiamo la trappola, la ragione del laccio è nella lepre (/ il laccio esiste a causa della lepre) quando abbiamo preso la lepre, si dimentica il laccio. La ragione della parola si trova nel senso dell’esprimere (le parole esistono a causa del senso: Quando il senso è attinente , si dimentica la parola (/ parole). Quando troverò qualcuno che dimentica la parola (/ parole) per comunicare con lui? (/ Per scambiare una parola con lui) capitolo 26, traduzione Jullien,
La trappola è analoga alla parola, il senso al pesce , questo apologo descrive il ruolo perfettamente ambiguo della parola mettendo in guardia dall’ ignorare la condizione necessaria e imprescindibile.

Capitolo 33: “Si esprimono in una lingua assurda ed enfatica in termini eccentrici e stravaganti, con espressioni senza testa né coda, si abbandonano persino a essere totalmente licenziosi senza spirito di parte (o ” a caso”?), senza considerare le cose da un punto di vista particolare. Si consideri che il mondo è inghiottito in una torbidità fangosa, ed è impossibile trattarlo con propositi seri. Questo perchè si utilizza un linguaggio instabile per distribuire infinite variazioni (/ per la distribuzione illimitata), parole ripetute per offrire un’atmosfera di autenticità e propositi allusivi per comunicare la più grande vastità “(traduzione personale ).

Capitolo 27, dal titolo “Parole allusive” (o di circostanza) ” Queste parole instabili che scorrono giorno dopo giorno come da un vaso che trabocca, si moltiplicano al fine di potersi adattare (non opposizione) alle mutevoli circostanze della vita.Fino a quando non si dice nulla, si è nel il processo di armonizzazione(identificazione) con le cose. L’identificazione perfetta e la parola non sono identiche (non si armonizzano) La parola e l’identificazione perfetta non sono identiche (non si armonizzano). Questo è il motivo per cui diciamo che non dovremmo parlare. Con parole che non sono parole, possiamo parlare per tutta la vita e non dire nulla, o se si sarà passata la vita senza parlare non si sarà mai smesso di parlare. “(Questo è il motivo per cui noi diciamo: non parlare, parlare senza parlare tutta la sua vita, questo non è assaporare la parola , non parlare durante la vita, non sarà mai non aver parlato) .

Si tratta di interrompere tutte le parole che implicano una designazione particolare,e non è questo il minore dei paradossi ; la parola deve lasciare passare , non deve opporsi allo svolgimento della realtà delle cose , altra formulazione equivoca, e in vista di ciò, può non essere colpita dalla caducità.

Così questi testi classici sono essenzialmente raccolte di apologi, intuizioni presentate in formule ellittiche refrattarie ad alcuna spiegazione definitiva(e traduzione) , totalizzante, volontariamente indecidibili in quanto a un senso …

Lo scopo non si lascia mai congelare, è in continua evoluzione, e non evoca lui stesso che la trasformazione degli esistenti (almeno per quello che è in esemplari questi testi classici ), sempre transitorio, variabile e modulabile, in un rinnovamento inesauribile per dire infine che l’unica cosa che non cessa mai è il cambiamento.

La logica interna del linguaggio e dei suoi limiti intrinseci, tuttavia, non viene negata , è utilizzata per ciò che suggerisce l’imprevisto.

Numerosi esempi possono illustrare ciò che è così difficile da riassumere. Vari argomenti filologici sostengono allo stesso modo queste considerazioni, si comprende, per esempio, come il Laozi (un altro grande testo taoista fondamentale, probabilmente del III secolo aC, nella versione che è noto) distingue il carattere “ming” che significa “nome, designazione, denominazione,” dal carattere zii che significa “carattere, parola”, ciò non dovrebbe essere visto come una differenziazione tra parola e scrittura (almeno in questo contesto), ma come due logiche differenti: in quella di “ming”, una parola che significa “grande”, introduce l’idea di grandezza rispetto alla piccolezza; e nella logica zii, lo stesso carattere significa “grande” in una connotazione d’ampiezza illimitata, e meno vincolata rispetto alla formulazione precedente; ma naturalmente, questo esempio è valido solo nel contesto specifico in cui appare e non potrà in alcun caso essere oggetto di una costruzione concettuale.

La parola si accontenta dunque meno di designare che di indicare (per riprendere la formulazione di Jullien), come spiega il grande commentatore classico del terzo secolo dC, Wang Bi, nel suo Laozi weizhi lilüe: “La denominazione determina un oggetto mentre l’indicazione segue ciò che intendiamo … La determinazione nasce da una caratterizzazione oggettiva, l’indicazione proviene da un approccio soggettivo. Il nome non nasce dal vuoto e l’indicazione non ne proviene . Anche la denominazione manca il significato voluto e l’indicazione non arriva a dire sino alla fine “(citato da Jullien, (5), p. 332).

Così la parola “giusto”, a cui abbiamo accennato in precedenza, oscilla tra la designazione e l’indicazione, tra l’oggettivazione e il punto di tendenza, per tentare di convergere verso la parola e il senso “allusivo” (un concetto sviluppato da Jullien, 5). E ‘un tentativo di spiegare l’idea cinese di “parola senza parola” che è stata discussa nelle citazioni precedenti. La parola che è privilegiata è qualcosa che oscilla in un recipiente che riempito si svuota, e svuotato si riempe; qualcosa che si arrotonda in un “quadrato che non ha angoli”.
Queste considerazioni derivate da testi della tradizione taoista potrebbero essere, se non sovrapposte, in ogni caso ampiamente comparate a quelle che potrebbero proporsi dai testi confuciani; un testo come quello dei “Dialoghi di Confucio” dimostra come il discorso può tendere alla tautologia per non sottolineare che il suo valore enunciativo, in una dimensione anche qui sostanzialmente allusiva.

Dalla prima lettura di un testo del genere può sfuggire una sensazione di grande banalità. Ma il suo apparente conformismo è legato alla preoccupazione di non favorire alcuna teoria o qualsiasi posizione particolare, come per aderire ai processi del mondo e degli esistenti , là dove i termini resistono a qualsiasi definizione e a qualsiasi confinamento concettuale; la struttura di dialogo di questi testi in forma di domande e risposte mostra come l’incitazione prevale su qualsiasi suggestione o desiderio di convincere, dove l’ universalità viene eliminata in favore di una modulazione propria di ciascun interlocutore.

L’esempio seguente ce ne dona la quintessenza: “Il duca Jing di Qi interroga Confucio sull’arte di governare. Confucio risponde: il sovrano un sovrano, il suddito un suddito , il padre un padre, il figlio, un figlio … “(15, 67 p.).

Il predicato si confonde col soggetto; bisognerà conoscere il contesto storico per cogliere che il personaggio interrogato, il duca Jing, poté intendere più di una rimessa in causa.

Nell’insegnamento di Confucio non c’è nulla di esoterico, non vi è speculazione: “Amici miei, si potrebbe pensare che vi sto nascondendo qualcosa. No, io non nascondo nulla. Non c’è niente che io pratico che non voglio condividere con voi: questa è la mia vera natura “(2, pag 65.).

“Pratica” è la traduzione di un carattere che evoca movimento, agitazione, la marcia (xing). Questa non è solo una posizione etica che viene qui evidenziata, si tratta di un reale coinvolgimento del proprio corpo che Confucio ha introdotto così: l’interazione significa “condivisione” (yu), la condivisione assegna, alle loro rispettive posizioni, il corpo di Confucio e dei suoi discepoli, la sua psiche e la loro, dove la differenza tra psiche e soma non c’è, non perchè sia inesistente , ma perchè non è pertinente, la categoria di “in-sè “scompare da sola.

Questo statuto della parola così come emerge attraverso alcuni esempi tratti dalle filosofie classiche della tradizione cinese non ha solo un interesse storico e teorico: essa pervade il modo comune di parlare lungo tutto il corso della civiltà cinese e struttura il pensiero quotidiano ; certamente tutto ciò si riferisce a un universo culturale specifico, ma nondimeno sottolinea una dimensione propria a tutte le parole, d’Oriente e d’Occidente, a patto che non le si voglia far valere nelle peculiarità in cui vengono a segnalarci il grande asse; esse non mancano di interrogare l’uso che ne facciamo nella presa del discorso sul fenomeno psicosomatico.
La tecnica nota come koan utilizzata nella pratica dello Zen giapponese (che, in origine, era cinese), fatta di aforismi paradossali e perfettamente equivoci proposti dal maestro zen al suo interlocutore, dal contenuto apparentemente scollegato dalla storia o dal discorso manifesto di questo ultimo, e volutamente introdotto in funzione del del dire o del non dire del soggetto, è un paradigma notevole (ricorda l’intervento dell’analista e la manipolazione del transfert).

La scrittura

Ripartiamo dalla difficoltà entro la quale paziente e analista si incontrano e che si trovano ad affrontare: c’è un disturbo che non si lascia vestire dalle figure retoriche del linguaggio. L’immobilità in cui il discorso è fissato sembraforse poter essere mosso se si riesce a introdurre una dimensione che noi qualificheremo di estetica; la categoria kantiana del bello, sensibile all’immaginazione tanto quanto incomprensibile alla comprensione, può essere una prima introduzione; ecco il bello che concerne e risiede nella forma: “il giudizio estetico non è un giudizio conoscitivo, non riguarda alcun concetto della natura di un oggetto, della sua possibilità interna o esterna, derivante da una causa particolare, ma solo il rapporto di queste facoltà rappresentative, in quanto sono determinate da una rappresentazione “.

Questo riferimento kantiano, se ha il vantaggio di sottolineare la dimensione della forma, inciampa qui necessariamente in quella dell’ immaginario che , precisamente, riferita al mondo delle immagini, fallisce attorno al fenomeno psicosomatico.

Analogamente, evocheremo l’imbarazzo di un commentatore d’arte davanti a un opera di un pittore come Pierre Soulages, come racconta Clément Rosset in un omaggio all’artista: “Penoso ruolo di un commentatore, che ha riconosciuto tra mille una tela di Soulages , ma non riesce a definire la sua originalità, se non attraverso la tautologia … “e ha introdotto un interessante confronto con la scrittura indecifrata:” Esistono al di fuori del dominio specificatamente artistico, degli oggetti portatori un tale significato enigmatico, al tempo stesso impercettibilmente significativo e non significativo. Casi di scrittura non ancora decifrata – ma è vero che ora sono rari. Casi anche di scrittura decifrata che resta ignota agli occhi del non esperto, il quale non discerne altro che una evidente bellezza grafica ”

Possiamo fare da subito, prima di sviluppare il tema, una allusione alla scrittura cinese, alla calligrafia e alla pittura; vedremo la forma prevalere su ogni altro parametro, in questa scrittura che esercita un fascino abissale sul profano, sono contenute tracce del corpo che le ha inscritte sul suo supporto, forme con le quali sono capaci di giocare incomparabilmente alcuni artisti come il pittore coreano Ung No Lee.
Ma il confronto con la situazione descritta da Clément Rosset tra lo spettatore e la tela del pittore non può essere utilizzato oltre: si presuppone in effetti la delimitazione e l’assegnazione ai due luoghi diversi (almeno inizialmente) di chi guarda la tela e della tela stessa; che è appunto la messa in scena che propone il paziente entro se stesso- o entro l’analista messo nella posizione di osservatore – e il suo corpo sofferente, senza che ciò produca finora un discorso inedito o la comparsa di nuove emozioni in attesa di essere parlate; questo dispositivo che rinforza l’analisi può ugualmente contribuire a bloccare qualsiasi emersione di questa “bellezza grafica” e ogni possibile giudizio , estetico o di altro : la traccia nera prenderà il posto dell’opera d’arte (per usare l’esempio di P. Soulages).

Nel disturbo psicosomatico, il corpo non riceve il linguaggio – almeno a livello della lesione dell’organo malato – il marchio che la introduce è sia in un registro erotizzato sia in quello del senso . Se c’è marchio, non c’ è più traccia . Una delle questioni chiave della dimensione psicosomatica sembra essere questo passaggio dal marchio alla traccia.

Nella sua conferenza di Ginevra sul sintomo, Lacan fa un riferimento alla scrittura a proposito del sintomo psicosomatico “E ‘certo che c’è un ancora un campo il più inesplorato. Infine, è lo stesso dell’ordine della scrittura. In molti casi non sappiamo leggerla. Si dovrebbe dire qualcosa qui che introduca la nozione di scrittura. Tutto avviene come se qualcosa fosse stato scritto nel corpo, qualcosa che è stato donato come un enigma “. Successivamente alluderà alla teoria delle firme, e infine al geroglifico.

La difficoltà sembra situarsi al livello della decifrazione enigmatica di una sorta di geroglifico.

Questa questione è di nuovo decentrata nella scrittura cinese, affrontata da un punto di vista differente, in una prospettiva che può essere utile a ispirarci riguardo la problematica psicosomatica

Non importa di riassumere lo sviluppo della scrittura cinese. Basta ricordare alcune caratteristiche notevoli, in primis la disgiunzione essenziale tra il carattere calligrafico, il significato, e la sua pronuncia. Da uno o dall’altro di questi parametri, si possono dedurre gli altri due, nonostante la dimensione particolarmente pittografica di certi caratteri.

Della sua origine divinatoria, la scrittura ha mantenuto la sua funzione primordiale di dover stabilire una corrispondenza con un dato evento o azione (qualificare più che predire)) , i primi nomi comuni apparsi evocavano l’azione o il comportamento.

Ciò che conta qui è il fatto che ogni carattere è in sintonia e in presa diretta con un evento corrispondente; diverse grafie possono segnalare lo stesso evento, ma allora ciascuna precisa un particolare elemento contestuale.

Da subito emerge il ruolo fondamentale che prende il corpo attraverso ciascuno di questi segni grafici: si tratta , lo abbiamo detto, soprattutto di azione e di comportamento più che di processo di concettualizzazione. La forma assume di conseguenza un ruolo di primo piano.

Da Marcel Granet:
“La lingua scritta dispone di un enorme materiale di segni caricati di un contenuto concreto d’una ricchezza incomparabile; essa è rimasta uno strumento meraviglioso di espressioni pittoresche … Lo spirito cinese dispone , non di un lingua fatta per annotare concetti astratti o generali , atta a esprimere modalità di giudizio e di analisi, ma al contrario, di una lingua estremamente legata all’espressione pittoresca delle sensazioni , dove solo il ritmo , liberando il pensiero emozionale, permette di delineare in una specie di lampo intuitivo, qualcosa che assomiglia a una analisi o a una sintesi … Risveglia nella mente del lettore un movimento di idee in quanto può causare la riproduzione del pensiero da esprimere, non costringe il lettore verso la forma definita nella quale è stato concepito, è semplicemente la spinta a pensare a un certo ordine di idee, è semplicemente l’orientatore “(4, pag. 119, 145, 154).

Dunque segnaliamo ancora la prevalenza della forma sul contenuto: forma dell’insieme del testo attraverso una sintassi , forme di caratteri calligrafati e topograficamente disposti in un certo modo sul foglio di carta.

Il carattere della scrittura vale di più per la sua forma che per il significato che esprime; l’attività del corpo del calligrafo è ciò che testimonia di ciò che suscita nel lettore. Questa attività avviene nel corpo, durante il processo di rappresentazione , quale sarebbe, nel pensiero occidentale, la coscienza riflessiva.

Il movimento che emana non è il riflesso che deriva da un obiettivo prestabilito, che può essere per esempio l’assegnazione di un significato. È in questo senso che il pensiero cinese può dirsi morfologico, per utilizzare l’asserzione di L. Vandermeersch (17), in opposizione a un pensiero teleologico.

L’attività del corpo, o del pensiero (di entrambi), non è finalizzata alla realizzazione di un’idea o a ottenere un oggetto predefinito, ma incontrando la struttura formale del mondo esterno si trova messa in gioco da queste azioni, liberando così le corrispondenze, che emanano una produzione non deterministica a priori. Così l’atto di intaglio della giada lungo le venature della roccia emana un oggetto unico imposto dalla struttura interna di esso e indipendente da qualsiasi modello precostituito; così l’incontro nel pittore con la sua propria emozione rispetto al paesaggio appare come calligrafia o dipinto precedentemente insospettabile, così il poema creato dalla sequenza e dalla disposizione dei vari caratteri , il fraseggio del corpo, dei contorni e dei ritmi, riflette la sequenza di forme che modellano la percezione del mondo da parte dei cinesi.

Il prodotto della scrittura apre un comune spazio tra lo scrittore e il lettore; essa li dispone mutualmente in una interazione della quale essa è il frutto e che realizza ogni volta; l’immagine come tale non importa se non in quanto traccia di una trasformazione all’opera, non come qualcosa che è fissato in un oggetto, ma come apparizione ed atto piuttosto che come lavoro finito (lo stesso carattere Xiang corrisponde al tempo stesso ai nostri termini di immagine e di traccia ).

Ciò illustra il concetto di interazione, fondamentale alla struttura del pensiero cinese, che non considera il mondo come una successione di stati, ma come una serie continua di trasformazioni, il carattere xiang (vedi sopra) corrisponde anche alla nostra parola “fenomeno”; i fenomeni del mondo sono trasformazioni, e la loro interazione entro due principi , entro ciò che si potrebbe chiamare la realizzazione-materializzazione di questo fenomeno e ciò l’ha ispirata, è quello che la lingua cinese sintetizza nelle rispettive nozioni di “Terra” e “Il cielo”, o yin e yang. Ma, fatto essenziale, i due poli di interazione non sono posizionati prima di essa, è l’interazione al contrario che implica i poli entro cui si sviluppa. Per riprendere l’esempio precedente, l’atto di scrittura di un carattere, la sua emersione è considerata come interazione: non tra due piani esistenziali separati (quello di un desiderio e di uno schema ideale preesistente nella coscienza dello scriba, e di cui ha fatto una rappresentazione), ma nell’alternanza tra un livello latente e un livello ovvio, potenziale e attuale, senza soluzione di continuità, come governato da una logica di immanenza.

Il corpo è inizialmente un effetto dello scambio di parole tra la madre e il bambino; si iscrivono le parole che, insieme agli effetti dell’immagine nello specchio, supporteranno essenziali parametri di riferimento, la sua posizione nella spazio, le differenziazioni, quello che si vede o no, l’interno e l’esterno, le sue funzioni e le aree di contatto e di mobilità nel mondo, gli orifizi e i luoghi di scambio e di comunicazione; i disturbi somatici faranno riferimento a tali parametri. Il pensiero cinese , rispetto a tali parametri, inverte il senso di accezione promuovendo una dialettica di interazione.
All’opposto , per esempio, di interno e esterno, esso sostituirà attraverso i caratteri utilizzati per mostrare il dritto e il rovescio di un capo, quello che potrebbe essere definito un ambito dalla prospettiva di vista dall’interno (li) e dalla prospettiva di vista dall’esterno (Biao) (questa dialettica è ampiamente usata nei testi medici): in questo senso, ci domandiamo, un disturbo psicosomatico deve essere considerato come il marchio non simbolizzato di un non- detto, della perdita di un’operazione metaforica, o come la scheggiatura nel vaso lasciata dalla gemma nell’incontro col blocco della giada, o come la balbuzie nello scambio della parola con l’Altro materno? Non c’è qui un calligramma in attesa di essere tracciato o una parola in attesa di essere pronunciata piuttosto di un senso da decifrare? Che un tale sigillo sia stato iscritto un giorno nei nostri corpi ci incita a sostenere la sfida.

Infine esistono nella tradizione cinese, delle rappresentazioni immaginate del corpo, soprattutto nella tradizione taoista.

Questi disegni non sono mai l’equivalente delle nostre tavole anatomiche, né sono una stilizzazione delle varie parti del corpo. Sono piuttosto dei quadri , dei diagrammi che servono come riferimento per il progresso nelle tecniche corporee (tra cui la meditazione), e rappresentano il percorso fisico e psichico delle trasformazioni del corpo all’opera. Gli appellativi di tali figure lo attestano ampiamente: “Mappa della cultura della perfezione”, “Mappa dell’ascesa e della discesa di yin e yang nel corpo”, ecc, che indicano le pratiche e non una riproduzione di qualsiasi realtà anatomica.

Ma queste rappresentazioni non sono solo immagini e nemmeno grafici. Essi sono anche “fu”, vale a dire talismani.

Il corpo dell’adepto taoista è di per sé un talismano, con la sua controparte nel mondo; “questa tavola talismanica ” del corpo (per riprendere le parole di B. Berthier-Baptandier, 1, 1993) è un diagramma che si “percorre, decifra e si integra simultaneamente” (3). E ‘il corpo in atto.

Nel suo approccio, questo adepto ricostruisce e decostruisce al tempo stesso il mondo e le sue rappresentazioni attraverso il suo corpo, apprendendo al tempo stesso il prima e il dopo delle trasformazioni incessanti, l’alternanza di apparizione e sparizione ” del “pensiero che non pensa, la parola che non dice, la verità che non può essere vista …, e la moltiplicazione infinita delle analogie , delle enumerazioni, dei rituali e tecniche … “(13, p.19).

La dimensione talismanica della mappa del corpo evidenzia come il mondo esiste mentre l’individuo lo costituisce ; allo stesso modo, possiamo dire che il mondo non esiste fuori gli esistenti, in altre parole, non c’è luogo concettuale in cui considerare “obbiettivamente” il mondo; questo non ha nulla di cui sorprenderci in una cultura che non ha edificato alcuna teoria della conoscenza. L’uomo e il mondo non si differenziano secondo la logica di soggetto e oggetto, ma si correlano, interagiscono nella stessa “attività”.

E ‘innegabile che tale visione sostiene , più di ogni altra, il gioco reciproco del linguaggio , della scrittura e del corpo, nei suoi comportamenti (la dimensione rituale è qui essenziale) e nei suoi collaudi , dove tutto in una volta il pensiero (ri) prende corpo e il corpo si pensa; senza cercare il tempo arcaico primordiale della nascita e i primi scambi con la madre e dunque un oggetto, ma il presente e l’immediatezza della mutazione.

Ora il tempo in questa istantaneità è la trasformazione stessa nell’interazione che segue e precede tutti ciò che è avvenuto o è da venire.. Non è questa dimensione che ottura e ostacola fondamentalmente il fenomeno psicosomatico?

E dunque …?
E ‘artificiale parlare di pazienti psicosomatici, come se fosse questa una categoria nosologica. Abbiamo detto all’inizio che evochiamo una qualche dimensione psicosomatica dove tutto o in parte il corpo sfugge alla presa del linguaggio.Potrebbe essere fatto il tentativo di decifrare questi fenomeni come geroglifici come Lacan ha suggerito, rendere leggibile questa firma illeggibile.

Il trattamento di questi pazienti con cosiddetti disturbi psicosomatici non può essere limitato alla ricerca e ricostruzione, alla “presa di coscienza” di una memoria cancellata, di un evento del passato, di una singolarità ambigua e incerta nella costituzione e disposizione del mondo fantasmatico , di un equivoco del significante, nella messa in evidenza di una ripetizione mortifera; è difficile sfuggire a una simile tentazione, che , del resto, non è riprovevole in sé, anche se questa prospettiva risulta, in pratica, insufficiente.

Il corpo non cessa di costruirsi e ricostruirsi, di definirsi, di delimitarsi, di reperirsi entro delle coordinate mai definitivamente stabilite; certo le esperienze dell’infanzia rimangono per sempre decisive , ma come fondamenti e induttori delle esperienze a venire piuttosto che come modelli, stampi fissati una volta per tutte nella loro forma e nel contenuto. Questa è una delle proposizioni essenziali verso la quale la visione cinese del mondo ci incita a riflettere. L’identità è concepita attraverso una logica di un processo interattivo , non a partire da un significante stabilito una volta per tutte ; questo problema allora decentra l’opposizione classica tra architettura narcisistica costruita nel mondo delle immagini e la costituzione del soggetto a partire da significanti fondamentali della sua storia nelle vicende del reale che si iscrivono su un corpo organico.

La gestione di questi pazienti sta ottenendo poco nel limitarsi , per la nostra esperienza, a una “talking cure”;un approccio più direttamente corporale è spesso parallelamente necessario . Gli antichi cinesi non potevano nemmeno immaginare di poter tralasciare una di queste due dimensioni.

Se si vuole ricordare che la parola “inventare” originariamente significava l’azione di “trovare e scoprire”, allora forse l’obbiettivo da concretizzare consiste nel permettere ai pazienti con disturbi psicosomatici di inventare il loro corpo, la cui esistenza non procede che dalla sua incessante attualizzazione, dalla sua messa in forma sempre rinnovata.

Per concludere queste poche premesse sul pensiero cinese che potrebbero aprire la strada a una prospettiva diversa sui fenomeni psicosomatici , lasciamo ancora una volta parlare Zhuangzi (capitolo 6):

Risposta alla domanda: dove hai ottenuto il Dao (la Via):

L’ho inteso dal discendente di Calligrafia;

che l’aveva inteso da Recitazione Ripetuta;

questi da Luminosità;

Luminosità lo aveva ricevuto da Istruzioni Bisbigliate ;

Che lo aveva ricevuto da Duro Apprendimento;

Duro Apprendimento da Canto Popolare;

Canto Popolare da Oscurità;

Oscurità dai Tre Vuoti;

Che l’hanno inteso da Forse un Inizio?